Dal
settimanale Avvenimenti, del 30 gennaio 2000. Articolo di Claudia
Savarese.
"Pubblicizzati,
venduti e apprezzati dai bambini italiani i giocattoli della Chicco rimangono
"sotto accusa", dopo l'incendio di sei anni fa in uno stabilimento
consociato, lo Zhili, della Cina meridionale, in Shenzhen, in cui morirono
87 operai e rimasero ferite 47 persone. Dal 1997 la Chicco si è
impegnata, solo verbalmente, di pagare un risarcimento di 300 milioni
di lire ai feriti e ai famigliari delle vitime. Ma finora l'indennizzo
non si è ancora visto. A denunciare la situazione è la Toy
Coalition, un coordinamento di associazioni e organizzazioni non governative
di Hong Kong. (...) L'incendio allo Zhili nasconde un ben noto problema,
quello dello sfruttamento della forza lavoro. «Le vittime - denuncia
la Toy - lavoravano dalle 10 alle 15 ore al giorno, per essere pagate
25 dollari americani al mese. La fabbrica era nota come "Tre in uno"
dove magazzino, officina e dormitorio erano tutti nello stesso edificio.
Quando a causa di un corto circuito divampò l'incendio le uscite
di sicurezza erano bloccate e le finestre sprangate».
Dal
quotidiano il manifesto, del 23 luglio 2000. Articolo di R.T.
"Il governo
italiano si è tirato indietro. Il sottosegretario Cabras, che rispondeva
a una interrogazione dell'onorevole Valpiana, ha fatto sapere che "non
può farsi carico di danni seppure gravissimi verificatisi nel corso
di subappalti da parte di una impresa italiana nel terzo mondo".
L'incidente, al quale si riferiscono l'interrogazione e la risposta del
Commercio estero, avvenne il 19 novembre del 1993 in Cina nella fabbrica
Zhili toy che produceva giocattoli per la Chicco (gruppo Artsana). Nell'incendio
morirono 87 lavoratrici e 47 rimasero ustionate (14 con danni irreversibili
che le rendono non autosufficienti). 50 corpi furono ritrovati ammassati
vicino a una delle uscite che la direzione dell'azienda aveva bloccato
(mettendo anche inferriate alle finestre) per evitare furti.
L'azienda, dopo essere stata riconosciuta colpevole dal tribunale di Kuiyon,
dichiarò fallimento e nessuna delle vittime fu risarcita. Nel '97
(la storia l'abbiamo già raccontata sul manifesto), grazie
alla pressione internazionale, la Chicco si disse disponibile a stanziare
300 milioni per contribuire a indennizzare i lavoratori. Un contributo
assolutamente risibile che, oltretutto, non è mai arrivato alle
vittime.
Nell'interrogazione (la Valpiana già nel '97 aveva sollevato il
caso in parlamento) si sottolinea anche che la ditta appaltante, cioè
la Chicco-Artsana, dovrebbe avere la decenza di risarcire totalmente le
vittime, visto che "non ha sufficientemente sorvegliato le condizioni
di lavoro nella ditta cui aveva subappaltato il lavoro". In subordine,
sarebbe dovere dello stato italiano intervenire finanziariamente, salvo
poi rifarsi sulla Artsana. La quale, ammette il sottosegretario, ha addirittura
una società (Caben) che si occupa di approvvigionamenti (15% del
fatturato) nel Sud-Est asiatico".
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