Massimo De Nardo Il luogo dell'arte di Franco Prato

Chi arriva a Macerata, da ovest, lungo la statale (da Sforzacosta), scopre alla sua sinistra un “posto” con una serie di “cose”. Tre spazzoloni rosso/azzurro di un lavaggio auto stanno lì, piantati sul lieve pendio di questo “posto”. E’ ovvio che gli spazzoloni, lì, sono diventati qualcos’altro. C’è una Fiat Cinquecento, tutta gialla, con gli sportelli a strisce rosse blu rosa, con ruote dentate, il vetro anteriore e il vetro degli sportelli sostituiti da grate gialle. Sopra l’auto, il cilindretto azzurro di una lampada/sirena e, accanto, la testa di un manichino (ha un po’ di busto) con una fluente parrucca bionda. Qua e là, tende da portone, di setola e in grani di plastica, che dondolano quando c’è vento.
Un muretto di pietre (quelle dei casolari di montagna) fa da balaustra ad altre pietre, veri e propri massi recuperati da qualche cava, e, sopra di essi, pietre scure levigate (non ciottoli, ma pietre che sono servite per qualcosa). Sembrano menhir rituali.
Gli automobilisti osservano, e certo si chiedono che posto sia un posto così, con quelle cose mostrate, ordinate come in un percorso museale. Le volte che c’è da stare fermi in attesa che passi il treno (il “posto” confina con un passaggio a livello) si ha modo di osservare meglio, e la meraviglia aumenta. Ci si accorge di vecchi giocattoli di plastica (cavalli a dondolo, birilli, automobiline), di tubi azzurri e rossi (per cavi elettrici), di lastre traforate di plexiglas e zinco appese a tubi marroni (tubi per l’acqua). A Natale c’è anche un presepe assemblato di “cose”. Un posto come questo, ogni tanto, fa discutere il Consiglio comunale. Qualcuno vorrebbe fare piazza pulita e ripulire “quella specie di discarica”; qualcun altro, al di là dei piaceri estetici, è democraticamente tollerante: “male non fa”. Alcuni artisti della città hanno scritto a favore di questo posto, nel normale diritto ad una libera espressione.
Se si guardano quelle esposizioni con rimandi alla storia dell’arte è facile rintracciarvi un bel po’ di avanguardie del Novecento, americano e nostrano. Dadaismo, Por Art, Land Art, Astrattismo, Arte Povera e varie. Artefice/autore di questo luogo è Franco Prato (classe ‘38). Ci siamo incontrati un sabato mattina (11 marzo 2000). Il terreno sul quale sono sistemate le “installazioni” non ha recinzioni, solo una catena con una minuscola targa di divieto. Alzi la gamba di trenta centimetri e sei dentro. Succede che qualcuno rubi del materiale. Franco Prato, cavaliere del lavoro, vigile del fuoco in pensione, se ne dispiace, com’è ovvio. La sua vera preoccupazione è però un’altra: che “quelle cose” non si deteriorino più di tanto. Vento e pioggia non mancano. Franco Prato arriva all’appuntamento con un furgone, le cui fiancate sono ricoperte di etichette adesive: anni fa, ha fondato l’Helvia Recina Motor Club e le etichette lo reclamizzato. La “visita” alle installazioni, spiegata direttamente dall’autore, è una visita ideale. La storia comincia una quindicina di anni fa, con un passaggio quasi naturale. Prima, lì, c’era uno che raccoglieva robivecchi. Il cavalier Prato ci andava spesso a trovarlo; qualcosa rimediava sempre. Prato, che da ragazzo ha fatto il meccanico, è di quei personaggi rari, capaci di costruire tutto e tutto da soli: dal rimettere a posto una vecchia motocicletta a tirar su una casa intera. Tra i robivecchi in qualche modo riciclabili, c’erano cose che non servivano più, ma che sarebbe stato davvero un peccato buttare. Verrebbe quasi da dire che Franco Prato ha iniziato come collezionista. Poi, il tipo dei robivecchi se n’è andato e Franco Prato ha chiesto il terreno, in affitto. Il proprietario del terreno è una persona intelligente. Era il posto giusto per sistemare le cose già prese, e lasciare quelle che considerava di un certo interesse. Le cose che Prato sceglieva per le installazioni avevano una loro precisa identità: erano di plastica. Cose contemporanee agli anni Cinquanta/Sessanta, periodo nel quale il moplen era materia da dibattito: avrebbe o no modificato la nostra vita, questa plastica dura, ma non eccessivamente rigida, antiurto, colorata, adatta per tutto, dal secchio della spazzatura al piatto per condire l’insalata (per citare due estremi che poi vanno ad identificarsi)? Oggetti di plastica, dunque, a segnare un passaggio se non d’epoca certo di modi di produzione. Il moplen entrava nel corredo domestico dei proletari, li invitava ad andare alla Upim, per comprare il servizio da cucina e, tentati attraversando i reparti, anche la biancheria intima. La ricerca dei materiali che segnavano “passaggi” era il filo conduttore delle installazioni di Prato. Dal moplen al plexiglas il passo non è chimicamente forse tanto lungo, ma gli oggetti cambiavano, e non di poco. Lastre di prexiglas (scarti di fabbrica) sono appese a dei totem o alberi della cuccagna. Assomigliano (sempre perché una cosa deve obbligatoriamente assomigliare a qualcos’altro) ai Mobiles di Calder. L’espressione di Prato è eloquente. Calder non esiste proprio nella sua testa di installatore allo stato puro. E così tutta la storia dell’arte moderna e contemporanea. Gli dico che gli spazzoloni mi fanno pensare ai cilindri di un certo Daniel Buren e che starebbero bene, trasformati in arredo urbano, in qualche piazza o viale di Parigi. “Sarebbe fantastico”, dice, lasciando quel certo Buren nel vuoto, cioè da dove è venuto. La stessa fine tocca a Jasper Johns, Robert Rauschemberg, Robert Morris, Claus Oldenburg, Jean Tinguély, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini. Eccetera.
Facile arrivare a parlare, in modo meno citazionistico, dei “Ready made” di Marcel Duchamp e ricordare gli “Objects of my affection” di Man Ray (qui c’è moltissimo di entrambi). Sono “Ready made” e “Oggetti d’affezione” involontari, ma lo sono soltanto per me, perché mi costringo a dei riferimenti cosiddetti culturali. Franco Prato prende nota dei due grandi artisti, ma lui, è evidente, segue una sua partitura.
Lungo il percorso (si cammina tra l’erba e una striscia di ghiaia e ci si accorge che il posto è pulito come un giardinetto svizzero) il marchio/simbolo di una cabina telefonica è piazzato come un segnale stradale (non ha nulla a che vedere con rimandi automobilistici). E’ come un reperto archeologico - dice Prato. Già, il trillo dei telefonini annuncia la scomparsa delle cabine telefoniche. Primi a sparire sono stati gli elenchi telefonici, ma non per sostituzione, semmai per sottrazione di intelligenza (riferito a quelli che strappano le pagine; puro gesto insimbolico). Davanti all’icona telefonica ci si può fermare per stabilire un contatto con la pop art, sia pure in forma sghemba. Le scritte al neon e i cartelloni pubblicitari stavano (e stanno) a Times Square, e da lì si spostavano di galleria in galleria, serigrafati e fotografati.
Il cartello della cabina non è più contemporaneo a questa epoca, è già “di-scaricato”.
Prato mi indica una lapide. Che ci fa una lapide mortuaria qui? Non è la morte dell’arte. La lapide, ricavata da una roccia, è un racconto. “E’ tutta una storia”, dice Prato. Cerchiamo di leggere. Il tempo cancella le parole e ne forma altre. “A soli 63 anni (xxx) repentinamente il 22 ottobre 1916 chiuse il ciclo della vita (…) dalla feconda sua paternità caro esempio ai quattordici figli (…)”. Seguono altre frasi. Quella storia di gravidanze continue comincia davvero ad essere narrata nella nostra testa. Ci vorrebbe lo spazio di un catalogo per descrivere gli oggetti, le cose, le robe, le plastiche, i ferri, le pietre di questo luogo. E se poi ci aggiungi le impronte di chi ha avuto, un tempo, quegli oggetti, e ci metti la polvere, la pioggia, il vento, il sole, gli sguardi degli automobilisti, non basterebbe un giorno intero.
Gli automobilisti si girano verso di noi. Io scatto fotografie. Ogni scatto è una scelta personale. Franco Prato mi suggerisce di fotografare tutto. In uno spazio aperto i punti di vista sono tanti. Il “pezzo” di questa esposizione è il luogo stesso. Continuo a scattare fotografie. Le inquadrature incorniciano gli oggetti. C’è un palo piatto sul quale sono incollate bottiglie di Coca Cola di plastica. Formato famiglia. Le bottiglie non hanno più le etichette. Dentro ci sono ritagli di stoffe di vario genere; anche mini bandiere americane. Una bottiglia di Coca Cola, di plastica, e dentro una bandiera americana. La sintesi è perfetta. Jasper Johns (che nel ’54 intitolò Flag la sua bandiera americana incollata su tela) ne sarebbe entusiasta.
Un’altra inquadratura. Un tubo di metallo, stretto, regge lamiere traforate, in una composizione a zig zag. Quando le jeep hanno difficoltà ad attraversare un tratto fangoso o di sabbia, questo tipo di lamiere viene infilato sotto le ruote. Qui non è la Parigi -Dakar. Queste sono lamiere usate nelle seconda guerra mondiale. Franco Prato ha tirato su il suo monumento. Lui è un pacifista. Si direbbe, per l’abbigliamento e un bel codino arricciato, una stella del rock post-Vietnam. Quelle lastre per fuoristrada hanno di sicuro una loro storia, un racconto tanto intimo da essere sconosciuto; ed è proprio il racconto che si può fare con gli oggetti “dismessi” che Franco Prato cerca di leggere. C’è dell’utopia.
Un pezzo emblematico, isolato dagli altri, è una boa arancione chiaro “catturata” da tubi a righe attorcigliate multicolore. Non sai perché, ma senti qualcosa di simbolicamente tragico. Franco Prato è intento a sistemare un oggetto che il vento ha buttato giù. Resto nell’incognita di quella scena strana. Più in là, un manichino bianco, senza braccia e gambe, con un cerchio di metallo attorno alla testa a mo’ di grande collana, sta su una vecchia poltrona da barbiere. La poltrona è sfondata, le viti sono arrugginite e hanno scolato il loro rigagnolo marrone. Accadrebbe, inevitabilmente, anche alla Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp (1913). Dietro lo schienale c’è un casco da motociclista: sembra indossato da un passeggero invisibile. La composizione è inquietante e affascinante.
Nel posto ci sono molte cose che Prato dovrà sistemare, ma non sono “buttate là”, hanno, per effetto d’insieme, una loro collocazione. Poi, forse, prenderanno posto in prima fila, verso la strada. Gli automobilisti passeranno e si gireranno.
Chi meravigliato, chi stupito, chi infastidito. Di sicuro, tutti a chiedersi che posto sia un posto come quello, e a cercare un senso. “Oggetti della mia affezione”, scrisse Man Ray. Credo che riprendere le parole di quel geniale personaggio che si faceva chiamare “Uomo Raggio” sia la strada giusta per arrivare nel luogo strano di Franco Prato.
"Tutto quanto capita sottomano, o è trascelto nella profusione dei materiali che ci sono prossimi, viene combinato con parole al fine di ottenere una semplice immagine poetica. Non bisognerà cercare quelle qualità plastiche, quei virtuosismi, o quei meriti che si è soliti veder associati ai prodotti artistici. Questi oggetti dovrebbero dilettare, disturbare, disorientare o far riflettere. Le immagini qui raccolte dovrebbero soprattutto intrattenere – che è poi l’unica via sicura per comprenderle."
Passando da queste parti, parcheggiate l’auto davanti all’ingresso di questo posto. Scendete, scavalcate e entrate. Franco Prato ne sarà felice. Sa di magico il fatto che il cavalier Franco si chiami come un posto.