FOTOGRAFFIARE

[Foto scattata da Frida Hartz il 10 febbraio 1995, alle ore 19.52, nel quartier generale dell'Esercito Zapatista]



Frida Hartz, giornalista messicana, fondatrice del periodico La Jornada.
E’ stata corrispondente di guerra in Centro America. Dal 1984 si dedica in particolare al reportage fotografico. Ha partecipato a numerose esposizioni di fotografia, individuali e collettive, in Messico, Italia, Stati Uniti e America Latina. Ha realizzato vari reportage sulla condizione dei lavoratori messicani e sulla situazione politica e sociale del Messico, del Guatemala e del Salvador. Sue fotografie sono state pubblicate in vari libri e in importanti giornali (Los Angeles Times, Die Tageszeitung, Liberation). Ha ricevuto vari riconoscimenti internazionali (tra i quali: Concorso Internazionale “Donne viste dalle donne”, della Comunità europea, nel 1989; menzione speciale premio “Ensayo Fotografico Casa de las Americas de Cuba, con il tema Polvora Maya, nel 1994)
.

 




 

Le fotografie del subcomandante Marcos sono state gentilmente concesse dall’autrice

QUALCUNO HA UN MARTELLO A PORTATA DI MANO?

All’alba del 1 gennaio 1994 l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale occupava le città di San Cristóbal de las Casas, Ocosingo e Las Margaritas, nella regione del Chiapas, Messico meridionale. La scelta del 1 gennaio 1994 non era casuale: da quel giorno entrava in vigore il Nafta (North American Free Trade Agreement), il Trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico. Un Trattato che avrebbe “affamato” ancora di più i contadini messicani, specialmente del sud, che coltivavano (e coltivano) il mais con sistemi tradizionali e per nulla competitivi con gli elevati ritmi di produzione e i bassi costi della manodopera imposti dal mercato capitalistico.
L’occupazione delle tre città del Chiapas - preparata da due anni - aveva lo scopo di mostrare al governo messicano (e al mondo) che l’EZLN era ben organizzato, in armi e con un buon numero di combattenti. L’esercito federale, il 2 gennaio, respinse con il fuoco quell’occupazione. Ci furono molti morti. I combattenti dell’EZLN ritornarono, in modo disordinato, sulle montagne della Selva Lacandona. Erano indios chiapaneci di varie etnie, con il volto coperto da fazzoletti rossi e da passamontagna. Tra loro, un messicano che tutto il mondo presto conoscerà come il subcomandante Marcos (subcomandante insurgente Marcos).

"Il passamontagna è un passamontagna - dice Marcos - e qualsiasi messicano può infilarsi un passamontagna ed essere Marcos, essere quello che sono io: unirsi a un movimento che sia giusto e legittimo e lottare per i propri diritti, non dico con un’arma, lo si può fare con un microfono, con una penna, con un foglio di carta, con una macchina fotografica".
Il subcomandante Marcos è certo consapevole di essere diventato una icona da poster. Gli è utile (è utile all’EZLN, al Chiapas, e anche ad una idea di libertà reclamata da altri popoli). E, giustamente, non se ne sottrae. Tanto più si cela, sia dietro un passamontagna sia nella Selva Lacandona, tanto più si rende visibile (rende visibile la lotta dell’EZLN). Marcos ha utilizzato tutti i mass media possibili (stampa, televisione, radio e Internet) per far conoscere al mondo la realtà del Chiapas.

"Né tu né nessun altro sapeva dell’esistenza di Ramona e che dietro ce n’erano decina di migliaia come lei. Non sapevi che loro, che vivono a qualche chilometro da San Cristóbal, in uno stato che produce energia elettrica per Città del Messico, che produce petrolio per l’esportazione, non hanno né luce né gas né petrolio, per illuminare usano le torce, e non hanno neppure un accendino, un barattolo di petrolio e un pezzo di tela per farci un lume. Neppure questo".

La foto del subcomandante Marcos (a cavallo) scattata da Frida Hartz inquadra tutti gli elementi che, insieme o separatamente, costruiscono “l’immagine Marcos”: il passamontagna (solo i compagni indios conoscono il suo viso), il berretto (da maoista?) con tre stellette militari, la pipa fumante, il fazzoletto attorno al collo, la cuffia e il microfono indossati e collegati ad una ricetrasmittente, le cartucciere del fucile e della pistola, la divisa verde militare con le maniche tirate su con cura, un tascapane (si vede la cinghia di traverso). Dietro le spalle, si intravede appena la canna di un fucile. Altro elemento “fabulatorio”: il cavallo.

"Quando viene diramato l’allarme (…) la prima cosa che fa il combattente è decidere quali sono gli oggetti di prima necessità da portarsi via e i principali se li mette addosso. Seguono quelli di second’ordine che vanno nello zaino. Il resto viene nascosto da qualche parte".

 

C’è qualcosa di particolare in questa “figura di guerrigliero”, qualcosa che sposta il codice di rappresentazione dal canone tradizionale. Sono la cuffia e il microfono? Oppure è la pipa fumante? La pipa sottolinea la calma e la sicurezza del personaggio e, come elemento “borghese”, rimanda ad una radice culturale “occidentale”. Marcos è laureato e ha frequentato un corso di specializzazione. Lui non puntualizza, ma si dice (il “si dice” non si può evitare con i personaggi già “mito”) che sia laureato in filosofia e che abbia lavorato per qualche tempo come grafico. Ha scritto un libro di fiabe.
Gli occhi “da bianco”, dai quali la Cia e la polizia messicana avrebbero voluto ricavarne una qualche identità, accrescono la miticità del personaggio: colui che sposa la causa di un popolo “diverso”, pur se le ragioni della lotta degli indios del Chiapas sono le sue stesse ragioni in quanto “diritto alla libertà” per tutti i popoli oppressi.

Marcos racconta che è per via del castigliano, lingua che gli indios non parlano, che lui è stato costretto a gestire il rapporto con i mezzi di comunicazione. Però, racconta, questo compito non lo ha svolto benissimo, tant’è che non lo hanno nominato comandante; ecco perché ha il grado di subcomandante. Il comandante è una donna. Spesso, leggendo le dichiarazione di Marcos, si ha l’impressione che voglia bonariamente prenderci in giro. Fa bene. Gli sono state fatte migliaia di domande inutili. Del tipo: Perché alcuni usano il passamontagna e a altri il fazzoletto? Risposta di Marcos: Perché quelli con il passamontagna erano riusciti a procurarsi un passamontagna.

Marcos dice che “qualsiasi messicano può infilarsi il passamontagna ed essere Marcos”. La grammatica dei segni-segnali (passamontagna più berretto più pipa) non riesce a comporre una proposizione corretta, completa. Bisogna aggiungere “messicano”. Ma la mitologia è spietata nella creazione dei suoi personaggi. Gli indios del Chiapas con i loro passamontagna restano persone nascoste da un passamontagna, dis/velano poco, al contrario di Marcos che ha trasformato la non identità in una identità, tant’è che il suo volto è il passamontagna. I suoi occhi “da bianco”, la sua pipa “occidentale” la sua cultura “latino-americana ed europea” sono ottimi elementi di trasmissione dal momento che il ricevente massmediatico è fuori dai confini messicani. Anche Che Guevara aveva elementi “migratori”: argentino, rivoluzionario cubano, assassinato in Bolivia.

"Se volete sapere che volto c’è dietro il passamontagna, è molto semplice: prendete uno specchio e guardatevi".
Marcos vuole essere noi. Il Chiapas non sta dall’altra parte del mondo. E’ l’internazionalità della lotta. Quando gli indios del Chiapas per trasmettere i loro programmi utilizzarono Internet molti si stupirono. Selva Lacandona e modem sembrarono inconciliabili (non tecnologicamente).

C’è una affermazione di Marcos che riassume la consapevolezza di un ruolo (spesso dato dagli altri):
"Noi non siamo fautori di una guerra a tutti i costi. Quando diciamo che la guerra è una misura disperata è perché è una misura disperata. Per questo la gente che fa la guerra è disperata, e per questo siamo “affascinanti”, perché siamo disperati".
Da notare, subito, il significato diretto delle parole: la guerra è una misura disperata perché è una misura disperata. Nessun sinonimo. Noi, probabile, avremmo fatto un bell’elenco di altri “perché”. Ma è quell’essere “affascinanti” che ci rende meschini, ancora una volta consumatori di esotismi tragici (purché accadano lontano da casa). Il fascino verso l’eroe disperato appaga il nostro ruolo di spettatori morbosi e guardoni.

Nei mercatini del Chiapas gli indios vendono pupazzetti con il passamontagna. Souvenir per noi, qualche pesos in più per loro. E’ già logica di mercato, ma gli indios conoscono i nostri gusti. L’inevitabilità del “tutto si trasforma in merce” non preoccupa Marcos:
"La commercializzazione della mia immagine mi diverte, mi fa ridere. Ai compagni certe cose danno fastidio, per me è indifferente, non mi cambia di una virgola, non ci guadagno niente, non ho il copyright della mia immagine".
Dietro al passamontagna dovremmo esserci noi. Dovremmo. Il guaio è che questo passamontagna non lo indossiamo affatto.
Alla fin fine, un cappuccio di lana è servito (serve) a molto. Le parole di Marcos sono eloquenti:
"Credo che il passamontagna produca un effetto ideologico efficace e corrisponda alla nostra concezione di quella che deve essere una rivoluzione non individualizzata o capeggiata da un caudillo, ma con la sufficiente forza morale per propagarsi tra la gente e arrivare a formare molti eserciti zapatisti, molti Marcos, molti comitati clandestini in ogni luogo e su molti fronti non militari"
.


Le dichiarazioni del subcomandante Marcos sono tratte da Io, Marcos (Feltrinelli)