FOTOGRAFFIARE

Charles Baudelaire fotografato da Nadar. 1860. Prendendo a prestito un divertissement concettuale si potrebbe dire: Baudelaire che guarda Nadar. E siccome quegli occhi puntano dritti su di noi (almeno questa è la conclusione fotografica) ci si potrà calare nei panni di Nadar, anche per un istante. Ma ciò, sappiamo bene, non sarà possibile. E sta qui l’inganno del ritratto, in questa illusione dell’osservarci, che ci porta completamente fuori scena, che ci rende estranei al poeta (noi a lui).
Una sorta di gioco con le parole - far terminare tutte le parole in dar - trasformò Gaspar Felix Tournachon in Tournadar e poi in Nadar.
Prima di essere il Nadar che ha fotografato la storia attraverso i suoi protagonisti (non lo fece da reporter, poiché i personaggi famosi si recavano nel suo atelier) Tournachon fu un irrequieto giornalista, un ideatore di fogli artistico-letterari di breve durata, un autore di un romanzo che non ebbe successo e un disegnatore caricaturista per riviste umoristiche.
Nadar e Baudelaire si conobbero nel gruppo denominato Bohème. Potrà aiutarci, per l’atmosfera, il grande Puccini.
A sfogliare un ipotetico album che raccolga tutti i personaggi fotografati da Nadar c’è da incantarsi. Fare dei nomi sprecherebbe l’effetto degli altri nomi non detti. Baudelaire non è stato estratto a sorte (da noi). Banale, forse, è anche “essere” Baudelaire, in questo caso, come condizione di scelta. In parte c’è la potenza del personaggio, ovviamente.
Ma la ragione della scelta sta nelle stesse parole di Baudelaire, che, in occasione del Salon de 1859, scrisse un capitolo intitolato Il pubblico moderno e la fotografia:
“… La poesia e il progresso sono due ambiziosi che si odiano di un odio istintivo e, quando si incontrano sul medesimo cammino, bisogna che uno dei due serva l’altro. Se permetteremo alla fotografia di sostituire l’arte in alcune delle sue funzioni, fra breve l’avrà soppiantata o completamente corrotta, grazie all’alleanza naturale che troverà nella stoltezza della folla. Bisogna dunque che essa si limiti al suo vero dovere, che è quello di essere la serva delle scienze e delle arti, ma l’umilissima serva, come la stampa e la stenografia che non hanno creato né sostituito la letteratura.”
La fotografia, dunque, come strumento di documentazione. E basta. Ci delude, Baudelaire, con questo pensiero. Ma, nel rivedersi mentre guarda Nadar, probabile che abbia cambiato parere. Non può essere solo documentazione la “stranezza di quel giovane sguardo – due punti neri sotto due archi rialzati” che “sarebbe bastata a turbare il pacifico borghese”.
Così scrisse Nadar, ricordando il primo incontro con Baudelaire.
“La prima volta che l’incontrai, nel 1843 o nel 1844, veniva verso di noi per il quai d’Anjou, non lontano dall’hotel Pimodan, dove allora abitava. Sia l’abito che il portamento mi sembravano stravaganti (…). Vent’anni dopo, ci si fermava ugualmente davanti alla seconda persona di Baudelaire, sia che, a Parigi o a Bruxelles, trottasse leggero come un tempo, sia che s’impuntasse meditabondo, sul bordo di qualche marciapiede. (…) il passante si diceva come una volta, ancora imbarazzato e sordamente malcontento: "Quel tipo non è uno come tutti gli altri e non è mio fratello. Chi è?"

La stranezza di quello sguardo è riproducibile anche in una foto del 1855. Nadar ritrae Baudelaire seduto su una sedia dallo schienale alto, che quasi diventa ombra della figura. Inquadratura con taglio diagonale, a dividere nero e bianco; il viso e le mani (che qui appaiono piccole e tozze) sono il raccordo tra luce e oscurità. Lo sguardo strano ha una fissità dolorosamente malinconica. Baudelaire non potrà più pensare la fotografia solo come documentazione, perché a riguardarsi avrà di sicuro messo da parte la “tecnica” per accorgersi che quello strumento della “nuova industria” (così definì la fotografia) gli aveva messo a nudo il cuore (“Il mio cuore messo a nudo” è il titolo di una serie di pagine [progetto per un libro], raccolte poi nei “Diari intimi”). La tecnica lascia il posto ad un turbamento, che a distanza di un secolo e mezzo ancora si forma sulla lastra sensibile.
Le foto che ritraggono Baudelaire sono essenziali (come tutte le foto di Nadar); niente sfondi appesantiti da tendaggi, mobili, vasi e altro. Soltanto il soggetto e uno sfondo neutro. Luci e ombre si fondono senza contrasto, ma è proprio questa velatura che fa emergere il soggetto dallo sfondo, come una sorta di apparizione di sé. E Baudelaire non poteva non averlo notato. Nelle grande galleria dei ritratti di Nadar, Baudelaire è uno dei pochi a guardare dritto l’obbiettivo della macchina fotografica. Non c’è posa documentaristica, come in certi personaggi che si mettevano di fianco, come se il tempo della luce che impressiona la lastra fosse identico al tempo della tavolozza. Baudelaire fissa l’obbiettivo, che è Nadar, che poi, al di là delle sue intenzioni, siamo noi. E questo osservarsi è certo un duello impossibile.
Nel ritratto del 1860, Baudelaire guarda, si direbbe, irritato. La “tecnica” lo metto a nudo ancora una volta. Capelli un poco allungarti, quasi pettinati di fresco, cravatta a fiocco ancora ben tesa, soprabito col bavero non rialzato. Sembra non aver voglia di farsi fotografare, anche se si è preparato. La “normalità” dell’abbigliamento non copre quello sguardo tagliente. Viene da pensare ad una frase, tratta da una lettera che Baudelaire scisse a Nadar, riferita a Les fleurs du mal: “il mio libro infamato”. Un libro che scandalizzò, e che procurò un processo all’autore, che la critica vide come un “cervello eccentrico, morboso e pericoloso”., la cui opera, così scrisse Nadar commemorando la morte dell’amico Baudelaire, su Le Figaro, il 10 serttrembre 1867, “come la sua figura, turbava il passante. E questo il passante non lo perdona.”

 

MDN